Don't worry, i' m a vampire-doctor!

ottobre/seconda settimana/lunedì/pomeriggio

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    « Daniel 'DANNY' Zachary Millard

    vampire ○ 25 eightynine years ○ surgeon


    L' ospedale di pomeriggio era meno popolato della mattina, poichè nelle prime ore della giornata le persone anziane che si svegliavano molto presto ne approfittavano per farsi visitare. La mattinata quindi passava velocemente tra un intervento e un altro, dal più semplice al più complicato. Mi piaceva il mio lavoro, a dire il vero non era un semplice piacere verso il lavoro che si svolgeva, era una vera e propria passione, si poteva dire che ero completamente innamorato di quello che facevo, anche se alcune volte poteva risultare un po' monotono. Non mi annoiavo, riuscivo sempre a trovare dell' affascinante e dell' interesse anche nella più semplice visita di controllo. La cosa che più mi piaceva di questo mestiere era il poter aiutare delle persone in fin di vita, aprire loro l' addome e lavorare con l' intestino, il fegato e lo stomaco, capirne la reale problematica e risolverla, era la cosa che mi riusciva meglio in vita mia. Alcuni pazienti avevano anche avuto il coraggio di esprimere il loro disappunto nei miei confronti, non volevano che ad operarli fossi stato io visto che sembravo giovane e appena laureato, ma non sapevano che avevo più di sessant' anni di esperienza sulle spalle. Quando dubitavano di me non potevo far altro che sorridere e lasciar parlare gli altri al posto mio, non potevo di certo rivelargli che avevo molta esperienza, mi avrebbero preso per pazzo. Questo pomeriggio, invece, non c' erano in programma degli interventi, ma solo qualche visita di controllo. Mi piacevano le visite, erano rilassanti, si conosceva nuova gente e soprattutto non dovevo sforzarmi più di tanto nel trattenere la mia natura omicida. Appena mi recai in ospedale come di routine, mi andai a cambiare nello spogliatoio e solo dopo, assicurandomi che nessuno mi stesse seguendo, raggiunsi la sala dove tenevano il sangue imbustato, pronto per essere iniettato ai pazienti bisognosi. In quel momento, il bisognoso ero proprio io, se non avessi bevuto del sangue avrei fatto maggior fatica nel relazionarmi con le persone. Ne prosciugai ben due buste senza tralasciare una goccia, adesso ero a posto e non c' era niente di cui preoccuparsi. Mi rinchiusi nel bagno per far sbollire la mia sete inarrestabile di sangue umano, aveva sempre questo forte potere su di me e mai quanto in questi momenti odiavo me stesso più di ogni altra cosa, mi guardai allo specchio provando una sensazione bruttissima verso me stesso, e l' unica cosa che desideravo era mettere fine a questa orribile natura. Sentii i battiti del mio cuore ripristinarsi e tornare a battere regolarmente, mi ero calmato e potevo finalmente tornare al mio lavoro. Nell' uscire da quella stanza, sbattei con estrema forza lo sportello del mobile dove erano contenute le sacche di sangue, allontanandole dalla mia vista almeno fino a questa sera. Camminai tra i corridoi con uno sguardo assente, era come se guardassi nel vuoto pensando a tutt' altro. Quando poi, finalmente, lessi la targhetta col mio cognome affissa su una porta, la spalancai entrando e lasciandola aperta. Stavo aspettando i pazienti che questo pomeriggio avrebbero dovuto farsi visitare.


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    « Angelique Danielle Stanford

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    Il mio lavoro di auto convincimento andava ormai avanti da ore intere. Infondo mi ero svegliata presto anche per quello: provare a convincermi che quella fosse una semplice visita di routine. Niente di troppo impegnativo o complicato, solo una visita obbligatoria se volevo classificarmi in qualche sciocca gara di cavallo. E io volevo classificarmi, dovevo per forza desiderare una cosa simile. Una che cavalca da così tanti anni e che non partecipa alle gare per evitare un dannato ospedale desta troppi sospetti ed ero stanca di sentirmi dire “potresti vincere” o “forse hai paura”. Sì avevo paura ma non di correre sopra al mio cavallo nero e di cadere sulla sabbia. Non avevo nemmeno paura di rompermi chissà quale osso dal nome complicato e stare ferma per mesi o forse per sempre…certo la preoccupazione c’era ma non c’entrava niente. Non con la mia poca voglia di presentarmi in quell’edificio bianco e freddo che sapeva di disinfettante. Il mio problema era nascondere tutte quelle tracce che avevo sulla pelle davanti a un medico. Non potevo pensare che chiunque mi avrebbe visitata potesse ignorare le numerose cicatrici che decoravano la mia pelle di ceramica con la stessa presenza e casualità di graffi sul vetro. Già era difficile pensare che fossero le prove di tutta quella brutalità, credere che qualcun le avrebbe viste e mi avrebbe sicuramente fatto delle domande mi faceva venire la pelle d'oca. Avevo passato un'ora intera al centro del letto, rannicchiata come una bambina, tremando e non riuscendo a far altro che rivivere almeno in parte quella notte orribile.
    Ormai vivevo da sola, mi ero staccata dai miei salvatori per illudermi di essere capace di vivere da sola una vita normale. Le illusioni erano da sempre la mia specialità: ne creavo ogni giorno per convincermi che il passato era passato e doveva essere tale. Illudermi e soffrire dopo aver capito la falsità di quelle illusioni era l'unico modo che avevo per non pensare al resto.
    Purtroppo però le illusioni possono ben poco davanti alla realtà più radicata e pensare che non fosse tardi risultava parecchio inutile. Mi aggiustai per l'ennesima volta i capelli biondi, senza ottenere nemmeno lontanamente la pettinatura che avrei voluto, e dopo essermi osservata per qualche altro secondo allo specchio presi le chiavi e la borsa e uscii di casa. Percorsi le scale esterne con passo decisamente troppo calmo e tranquillo per una come me che adorava farle di corsa, La paura cambia ogni cosa: cambia il modo di guardarsi alle spalle, la reazione a ogni urlo o rumore, la velocità dei passi stessi. Dopo quei segni sulla pelle e sull'anima io non ero mai più stata la stessa. Ed era sempre colpa della paura se, quando parcheggiai davanti all'ospedale, non potei fare a meno di essere percorsa da un brivido lungo la schiena e velocizzare il respiro. Con un atto di coraggio quasi esagerato posai con cura la mano sulla maniglia e aprii la portiera. Uscii quindi con agilità dalla macchina per poi chiuderla e avviarmi con il passo più normale che trovai all'interno dell'edificio. Le scarpe col tacco che avevo scelto ticchettevano calme sull'asfalto, per niente interessate alla differenza tra il loro ritmo e il mio umore. Presi un respiro profondo, sempre senzaa fermarmi, e lasciai che le porte di vetro scorrevoli si aprissero veloci davanti a me. L'aria condizionata mi travolse bnenchè fuori non facesse poi così tanto caldo, mentre medici e infermiere camminavano allegri di qua e di là. A parte qualche soggetto decisamente stanco sembravano tutti a loro agio. Era come se per loro la vista del dolore delle persone non fosse sconvolgente ma semplice routine. E sapevo bene quanta fatica si facesse per rendere qualcosa semplice abitudine.
    Mi diressi sempre meno entusista verso la reception. Non osai aprire bocca, temendo che potesse tremarmi la voce: mi lkimitai quindi a mostrare il foglio con il nome del medico che dovevo vedere. Avevo sempre meno voglia di ascoltare, stare attenta. Temevo anzi che i miei neuroni, posti davanti a così tanto stress emotivo, potessero espoldere. Sorrisi annuendo alle indiciazioni della donne e osservai da lontano le scale che salivano al primo piano. Se avessi potuto scegliere sarei rimasta lì sotto in eterno, a costo di congelare sotto l'paria fredda. Ma alla fine fui costretta a decidermi e con calma mi diressi verso quel dannato ambulatorio. Di solito ero più un tipo da "prima inizi, prima finisci" quando ero davanti a qualche pericolo ma questa volta quel motto non valeva affatto. Piuttosto si adattava più che bene alla situazione una cosa come "voltati e scappa". Peccato fosse tardi.
    Con un'ultima falcata mi portai sul pianerottolo del primo piano. Spinsi la porta con decisamente poca forza e mi ritrovai catapultata in un corridoio grigio e bianco decisamente lungo che dava su una sala d'aspetto dai divanetti rossi. Il contrasto era tale da essere quasi accettabile, per quanto poco contasse al momento lo stile. Ad ogni passo mi sembrava di avvicinarmi più a una fine che a una semplice sala d'attesa, che tra l'altro scoprii essere vuota. Avevo sperato fino all'ultimo di poter usare la scusa della troppa gente per andarmene ma evidentemente la fortuna, quella mattina, non voleva proprio saperne di avvicinarsi. Dopo aver controllato il nome del medico mi gaurdai intorno fino a che i miei occhi non si posarono su una targhetta dorata. Dico io, non poteva essere il suo giorno libero? O magari era stato male? O era a prendersi un caffè, in bagno, con una collega...qualunque cosa. No. Era lì, seduto dietro alla scrivania che si scorgeva appena dal corridoio, indafarrato al computer. E non potevo nemmeno lontanamente usare la scusa del non voler disturbare perchè non avrebbe retto. Non ero in visita a casa di un amica! Timidamente -dovevo aver già consumato la mia dose di coraggio- mi avvicinai alla porta e bussai. In quel momento, nell'istante in cui le mie nocche cozzarono contro il legno bianco, ringraziai il Karma -visto che non credevo in Dio- per essere sola. nessuno doveva vedere quella che si fingeva sempre una cattiva ragazza in quelle condizioni.
    Posso entrare?
    domandai con voce controllata a malapena, gli occhi che guizzavano ovunque.


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    Controllai al computer la lista dei pazienti che avevo operato nell' ultimo mese, verificando se avevo riempito tutti i campi richiesti dal modulo. La tecnologia aveva proprio sconvolto le abitudine umane, intaccando anche il lavoro dei medici che si erano sempre affidati alla carta per appuntare un' informazione o un documento. Aveva contagiato anche me che ormai vivevo con il mio smartphone sempre con me per essere disponibile all' ospedale anche quando ero a casa, io che da piccolo giocavo con i sassi che trovavo per la strada o al massimo con il gesso dei muri per disegnare il famoso gioco della campana sull' asfalto. Adesso, invece, i bambini erano incollati alla tv 24 ore su 24 per vedere i cartoni animati, crescendo i loro genitori gli compravano la console e via via il cellulare di ultima generazione, il computer e Dio solo sa cos' altro avrebbero inventato. Dopo aver ordinato la lista dei pazienti, passai a controllare la mia posta elettronica; detestavo rimanere nella mia stanza a visitare qualcuno invece che essere in sala operatoria con le mani dentro la pancia di un poveretto. Ma purtroppo non potevo portare in sala operatoria una persona che stava bene. Sentii bussare ma continuai a fissare lo schermo acceso, concentrato a eliminare la posta già letta che impesantiva solo la mia casella. Quanto sono tecnologico! pensai tra me e me lasciandomi sfuggire un sorriso compiaciuto. "Prego, si accomodi pure." dissi distrattamente al paziente che aveva chiesto il permesso di entrare, ma la mia concentrazione al pc finì molto presto perchè venni rapito dall' odore di sangue che sentii arrivare dalla porta. Era così piacevole e irresistibile che anche un vampiro abituato al sangue come me si sarebbe trovato in difficoltà. Staccai gli occhi dallo schermo spostandoli sulla ragazza che avevo di fronte. "Salve!" la salutai sorridendo, pensando che magari se le avessi parlato non avrei pensato a saltarle addosso e succhiarle il sangue che le scorreva dentro il corpo. Era una giovane donna, ventun' anni al massimo e anche molto carina, peccato che fosse una mia paziente e non ci provavo con loro, mi avrebbero compromesso la carriera professionale. E poi provarci con una ragazza così giovane era assurdo, avevo ottantanove anni anche se ne dimostravo venticinque, forse avrei potuto essere suo nonno. Sì, un nonno molto attraente però. "E io che mi aspettavo una sessantenne con problemi intestinali." - pensai a voce alta facendo notare la differenza tra le due tipologie di pazienti. Abbassai lo sguardo sulla scrivania e presi in mano il foglio delle visite in programma per oggi pomeriggio, e notai che non erano poi molte. Dopo la ragazza, ci sarebbero state altre due persone e poi, forse, sarei potuto andare a disturbare gli altri colleghi nelle sale operatorie. "Angelique Stanford.." - lessi il suo nome dal foglio che tenevo in mano, accorgendomi che il suo nome non suonava tanto bene in accento americano, così potei dedurre che fosse francese e lo ripetei correggendo la pronuncia, sperando di averlo detto bene. Sorrisi poi divertito da quel gioco di accenti, sembravo un bambino alle prese con una nuova parola a lui sconosciuta. "... come mai qui, Angelique? Posso darti del tu, vero?" le chiesi accorgendomi che le avevo dato del tu senza neanche chiederglielo prima. Mi chiedevo cosa la portasse nello studio di un dottore-vampiro specializzato in chirurgia generale, che apriva in poche parole la pancia della gente e curava gli organi al suo interno come intestino, stomaco e fegato.


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    « Angelique Danielle Stanford

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    Se avevo anche lontanamente pensato di entrare lì dentro e di tornare con la mia solita calma mi ero sbagliata. Se possibile, una volta varcata la soglia, la stretta allo stomaco si era intensificiata a tal punto che faticavo quasi a respirare in maniera più o meno regolare. Temevo di cominciare a tremare da un momento all'altro o, peggio, di riuscire solo a voltare i tacchi e correre giù dalle scale con la faccia di una persona terrificata. Da piccola mi era capitato spesso: usciva a tentoni dalla stanza mentre mio zio giaceva inerme e ancora sudato accanto a me. Raccattavo sempre a fatica gli abiti al buio ma raramente mi sbagliavo: al contrario dei miei i suoi puzzavano di fumo e soldi. Non era un profumo preciso quello dei soldi, più che altro erano ikmpregnati del successo che tanto bramava. Non gli importava cosa o come, io ero solo una tappa del suo viaggio. Non che non avesse un cuore, mi ero sempre ripetuta che lui aveva dei sentimenti, solo molto sepolti e probabilmente dovevo aver fatto qualcosa che lo aveva cambiato. La colpa alla fine doveva per forza essere mia perchè la zia non parlava mai di un uomo cattivo. La zia non veniva picchiata, nè violentata, anzi lei era sempre in silenzio. Non avrebbe mai urlato, per questo mi sembrava sempre che lei stesse bene. Ero convinta che il suo silenzio fosse solo sintomo di incoscienza: pensavo ingenuamente che lei non potesse conoscere quel che stavo passando, quel che lo zio mi faceva di notte. Invece sapeva, e sapeva anche molto bene. A lei semplicemente non importava e aveva paura, sopratutto quella. Se avesse parlato, forse, lo zio si sarebbe spostato addosso a lei e non aveva alcuna intenzione di provare quel che provavo io sulla sua pelle. Io ero una bambina, per lei potevo anche soffrire perchè forse avrei dimenticato. Invece non avevo dimenticato proprio niente... e mentre lei si girava dall'altra parte, nel letto vuoto, io camminavo nel corridoio vuoto, nero, buio. Non mi importava del buio, quello non faceva paura. Il mio buio mi nascondeva, mi estraniava e se nel buio c'era qualcosa quel qualcosa non faceva male. Non andavo mai di sotto, non per evitare di far rumore ma piuttosto perchè c'era troppa luce: le finestre che illuminavano la sala enorme portavano sempre luce, anche se solo quella della luna, e le ombre si allungavano tanto da sembrare mani. Invece le poche finestre del corridoio non facevano così paura...erano il mio rifugio.
    Crescendo e allontandomi da tutto quello il buio era diventato l'ennesimo simbolo della mia paura e detestavo rimanerci per troppo tempo per quanto in realtà detestassi anche la luce.
    Lì dentro l'odore di disinfettante minacciava di avvolgermi e soffocarmi lentamente, con calma e pazienza. Pazienza che avrei voluto avere io, in quell'istante. Quanto tempo potevo passare lì dentro? Venti minuti, forze mezz'ora scandita regolarmente dai ticchettii dell'orologio appeso alla parente. Cosa potevano mai essere quei minuti a confronto con la serata in solitudine che mi aspettava? Forse se avessi pensato a quella sarei riuscita a stare più calma e...no. Perchè la sera sembrava tremendamente lontana nella luce del pomeriggio, e quella stanza era troppo reale per essere affrontata così facilmente.
    Se lo spirito della sua battuta era quello di alleggerire una tensione che era solo all'inizio...beh non ci era riuscito. Per quanto potesse suonare quasi come un complimento la cosa, detta poi da un uomo, non migliorava la mia tensione. Sorrisi appena, un sorriso come sempre falso e impacciato che non sfiorò gli occhi, e annuii quando disse il mio nome, prima in un americano incerto e subito dopo in un francese decisamente carente. Non gli risi in faccia perchè sarebbe stato scortese e perchè non ero più sicura di saper ridere, dopo tutto quel tempo. La mia risata appariva infatti vuota come i miei occhi e da anno interi nessuno riusciva a cambiare le cose.
    Alla fine mi diede del tu, chiedendomi che cosa ci facevo lì. Sembrava tremendamente a suo agio anche se non ci conoscevamo per nulla. Osservai dalla porta la sedia su cui avrei dovuto sedermi. Beh non ne avevo alcuna intenzione: sarebbe stato pi difficile alzarsi e correre altrove.
    Sono qui per una visita di controllo...mi hanno mandato da lei non so se è giusto...
    spiegai provando a non far tremare eccessivamente la voce. Non voleov pensasse fossi una di quelle persone che hanno paura del dentista o dell'oclista o di qualcun altro. Io avevo paura degli uomini e degli spazi chiusi per il mio passato, la cosa era diversa.


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    Non seppi spiegarmi il motivo ma avvertivo qualcosa che non andava in quella ragazza, non fisicamente parlando. Era come se fosse tesa o comunque non vedesse l' ora di andarsene da qui, allora mi domandai per quale motivo si stava sottoponendo a quella visita per forza. Sorvolai, in fin dei conti non erano affari miei, ero lì per fare il mio lavoro e basta. Sono qui per una visita di controllo...mi hanno mandato da lei non so se è giusto.. ascoltai la sua risposta rimanendo seduto dietro la scrivania. La voglia di morderla stava passando e mi sentii leggermente più rilassato. Notai che la ragazza non si era neanche seduta, cosa che un paziente normale faceva sempre quando veniva a visitarsi, giusto per il tempo iniziale o magari verso la fine della visita per prendere l' esito ed eventuali raccomandazioni mediche. "E pensare che quello strano sono io.." - pensai tra me e me paragonandomi alla ragazza. A pensarci bene, mi sembrava di rivedere me stesso in lei appena dopo che mi nutrivo di sangue umano, in quei momenti ero in una fase delicata, il vampiro che ero diventato si faceva avanti mentre con la mente combattevo quest' orribile natura. Non capivo quella ragazza, era qui da me per una visita di controllo ma poteva essere oculistica, odontoiatrica, cardiologica e così via. Mi alzai dalla sedia in cui siedevo per avvicinarmi a lei, o meglio al foglio che la ragazza teneva in mano. "Posso?" chiesi afferrando il foglio con una mano e lessi la prescrizione medica. ..Sì, sei nel posto giusto. Puoi toglierti la maglietta e accomodarti sul lettino." le dissi cosa fare, forse se avessimo iniziato la visita sarebbe finita il prima possibile, così lei finalmente sarebbe potuta sgattaiolare via ed io potevo passare al prossimo paziente. Visto che era una semplice visita di controllo generale, le avrei fatto un' ecografia, evitandole il fastidioso sondino. Tornai alla mia scrivania aggiungendo il suo nome alla lista dei pazienti e iniziai a compilare il certificato della visita mentre lei si spogliava. Non capivo se a metterla così a disagio fossi io oppure era solo un suo timore; nel primo caso mi sarebbe dispiaciuto poichè non mi era mai successo di trovarmi davanti una paziente donna che si trovasse a disagio in mia presenza. Neanche fossi un ginecologo che aveva a che fare con le loro parti intime, allora avrei capito. Mi dispiaceva perchè magari, sapendo come fare, avrei potuto metterla a suo agio, ma non ero bravo con queste cose, io che non avevo una vita sociale molto attiva al di fuori dei colleghi dell' ospedale. Non mi dispiaceva stare da solo, anche se ogni tanto un po' di compagnia la desideravo con tutto me stesso, era in quei momenti che mi deliziavo di donne facili incontrate in qualche locale notturno.


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    « Angelique Danielle Stanford

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    Almeno un centinaio di volte mi ero concentrata sul fatto che molto probabilmente il problema non era negli uomini in sè per sè ma piuttosto dentro di me. Molto probabilmente avevo qualcosa di irrisolto al livello interiore secondo il quale qualunque cromosoma XY che mi trovassi davanti mi incutesse tutto quel timore. Eppure, lentamente, incominciavo a sentire la morsa allentarsi. Quella voce era troppo soffice e calda per appartenere a qualcuno di crudele. Non poteva volermi fare davvero del male anzi a pensarci bene lì dentro cominciavo quasi a sentirmi al sicuro. Ok, la cosa era ben poco sensata considerando che due secondi prima volevo solo andarmene ma la sua presenza mi stava lentamente calmando. Era possibile sentirsi così bene con uno sconosciuto? Era qualcosa che non provavo da...mai. Non ero mai stata così. E non credevo nemmeno potesse essere vero. Per quanto fossi brava a illudermi questa volta volevo sfuggire a una cosa simile: un conto era negare l'evidenza per stare un conto era vedere qualcosa che non ci sarebbe mai stato. Mi concessi, senza nemmeno pensarci, di alzare gli occhi e mi bastarono due soli secondi dentro le sue iridi per essere travolta da un mondo che non era il mio eppure ci somigliava parecchio. Forse non c'era quell'alone di dolore che avevo sempre visto nella ragazza che tanto mi somigliava, quella riflessa nello specchio la mattina, ma erano così profondi da farmi sentire quasi a casa. Io che una casa non l'avevo mai davvero avuta! Non c'era mai stato un posto che potessi chiamare così e ora mi sentivo bene in un ambulatorio! Ok forse dovevo andare da qualche psicologo, uno di quelli bravi magari.
    O forse non avevo sbagliato reparto ma piuttosto avevo sbagliato epoca, mondo, vita. Avevo sbabliato a nascere quando ero nata. Forse sarebbe bastato solo un mese o un anno in più o in meno e qualcosa sarebbe cambiato. Anzi se non fossi mai nata sarebbe stato meglio: lo zio non sarebbe mai stato così violento, la zia sarebbe stata bene...credo.
    Alla sua domanda o meglio istruzione lo guardai con occhi improvvisamente diversi. Il mio cambio d'umore repentino mi portò un panico dentro che non sarei mai riuscita a descrivere. Era come se la morsa fosse tornata a stringermi tutta d'un colpo. Un po' come quando hai paura e non riesci a muoverti non per la paura, appunto, ma perchè i tuoi muscoli ti fanno così male da non poterti muovere. Eppure non potevo rifiutare, sarebbe stato molto peggio. E se fossi tornata indietro e non avessi mostrato un certificato valido e completo avrei rischiato un interrogatorio molto più profondo e preciso degli altri.
    Le parole erano ancora ferme nel vuoto, aspettavano che mi muovessi per dissolversi. Così, volendo dissipare l'ennesimo peso, mi voltai di spalle e mi sfilai la maglietta. Evitai di pensare a tutti quei segni ancora rossi, che sembravano addirittura appena fatti, a tutti i lividi ancora ben visibili sulla pelle d'alabstro. Non pensai nemmeno alle mie ossa ormai contro la pelle o alla feritaa che mi percorreva la spina dorsale, dividendo a metà le due ali enormi che avevo tatuate sulla schiena. Non pensai a niente e rimasi semplicemente immobile, nuda e debole come non ero mai stata. Non osai fare niente, il lettino era immobile davanti ai miei occhi e riuscivo solo a pensare di mantenere la calma, di non piangere o urlare. Di aspettare e basta...forse solo una stella cadente. La storia delle stelle era parecchia vecchia: me l'aveva raccontata per la prima vecchietta una donnina dai capelli grigi che avrei dovuto chiamare nonna ma che avevo visto sì e no due volte. Lei amava la magia e i racconti così una sera mi aveva mostrato una stella cadente e aveva detto che qualunque desiderio avessi mai espresso.si sarebbe avverato. Così, quasi ogni notte, uscivo sul balcone della mia stanza o mi affacciavo a una finestra del corridoio e aspettavo che una stella cadente illuminasse il cielo. Avevo provato a desiderare cose terrene e cose impossibili ma non si erano mai avverate. Così le stelle erano diventate solo un passatempo, una bugia a fin di bene che dava false speranze. L'ennesima illusione .


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    Di colpo nella stanza cadde un silenzio freddo che mi inquietava, mi piaceva il silenzio ma solo quando ero da solo a conviverci, in compagnia era solo fastidioso e imbarazzante. Amavo fare lunghe passeggiate da solo, correvo perfino al parco in un orario in cui tutte le persone sane di mente stavano dormendo, mi piaceva restare in casa in silenzio a riflettere su me stesso e su quello che una volta ero. In compagnia, invece, non riuscivo a stare in silenzio per più di due minuti, mascheravo molto il mio vero carattere forse per paura che gli altri, una volta che mi avessero conosciuto per quello che ero realmente, mi avrebbero tradito e pugnalato alle spalle proprio come aveva fatto colui che mi aveva trasformato. Lasciai la presa dalla penna nera che impugnavo, e mi alzai dalla sedia per raggiungere la ragazza. La prima cosa che notai era il suo sguardo sofferente, per un attimo avevo pensato che avesse difficoltà respiratorie, ma poi capii dai suoi occhi che si trovava a disagio vergognandosi di qualcosa. A quel punto il mio sguardo cadde sul suo petto e il suo addome, quasi completamente ricoperti di graffi e altre lesioni piuttosto strane. Non erano le solite ferite che una persona si fa a causa di un incidente, quelle erano state procurate da qualcuno. Forse qualcuno poteva non arrivarci, ma io ero un chirurgo, ne vedevo tutti i giorni di ferite, di tutti i tipi e arrivai alla conclusione che quelle lesioni erano state causate da qualche tipo di violenza. Ora mi era tutto chiaro, il comportamente della ragazza freddo e distaccato, come se mi temesse, il suo sguardo preoccupato, erano tutti sintomi di chi si vergognava del proprio corpo. E lei evidentemente temeva che avessi visto questo scempio. Per un attimo arrivai anche a pensare che a farlo fosse stato un essere sovrannaturale e che quindi conoscesse la mia vera natura, ma un vampiro non perdeva tempo a lacerare un corpo umano, ci si scagliava subito addosso per succhiarne via il sangue fino all' ultima goccia; non poteva neanche essere stato un licantropo perchè, da quanto ne sapevo io, questi procuravano graffi più ampi e morsi visibili. Cosa fare? Non potevo certo chiederle cosa avesse fatto perchè non erano affari miei e si sarebbe sentita ancora di più in difficoltà e osservata. L' unica cosa da fare era non chiederle niente, tanto non l' avrebbe aiutata in nessun caso. "Sdraiati." le chiesi con tono pacato indicandole con una mano il lettino accanto a noi. Era necessario che si sdraiasse, non potevo farle un' ecografia in piedi. Mi infilai i guanti in lattice e mi sedetti sullo sgabello accanto al lettino, e mentre mi misi su una mano un po' di gel, la guardai negli occhi cercando di capire a cosa stesse pensando. L' ultima cosa che avrei voluto era che sentisse a disagio, per quanto difficile potesse essere. Lei non sapeva, però, che in quel momento aveva tutta la mia comprensione: sapevo benissimo cosa signifcasse portarsi addosso delle ferite che ogni giorno, guardandole allo specchio, non facevano altro che ricordarti di quel brutto ricordo. Sull' avambraccio destro avevo ancora il segno del morso di quando quell' animale mi aveva trasformato. Per fortuna il camice bianco che indossavo lo copriva, ma quando ero in sala operatoria avevo gli avambracci scoperti, allora tutti potevano ammirare quello schifo di morso, e mi trovavo costretto a giustificarlo con un morso di un cane quando ero piccolo il più delle volte. Spalmai il gel sull' addome della ragazza e afferrai la sonda a scansione lineare, che sarebbe servita a proiettare sul monitor i suoi organi. "Ho letto sul foglio che la visita è per una certificazione sportiva. Che sport pratichi?" le chiesi fondamentalmente per farla parlare e distrarla, mentre io osservavo il monitor attentamente.


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    « Angelique Danielle Stanford

    Human ○ 20 ○ Student


    Le domande in quel momento erano più che di rito. Una persona normale o almeno minimamente presente mi avrebbe fatto domande a raffica. Avrebbe continuato a farmi domande su domande, senza alcuna sosta. Come medico mi avrebbe per lo meno chiesto se avevo fatto qualche analisi o qualche controllo e la risposta sarebbe stata no. Non avevo fatto niente perché avevo sempre avuto paura che avrebbe collaborato a rendere tutto quel che avevo passato anche troppo reale. Illudermi con dei risultati in mano sarebbe stato impossibile. Avrei avuto delle terapie forse da affrontare, degli esami, degli accertamenti e anche se avessi potuto morire all’istante senza non avevo intenzione di farci niente. Non avevo nessuno accanto che potessi aiutarmi e quelli erano i patti a cui ero giunta con me stessa: niente che rendesse il passato reale. Niente foto, niente diari, niente esami, certificati, cose tangibili che non fossero quei segni che purtroppo non potevo cancellare. E soprattutto niente discorsi su quel che avevo passato. Era una cosa che interessava solo me e che nessuno doveva sepere. Non aceca alcun senso dare alla gente un motivo per provare compassione anche per me e sopratutto non volevo essere aiutata. L'ultimo era un punto dolente e per nulla positivo: se nessuno voleva darmi una mano era decisamente difficile uscirne. Io non ci ero ancora riusita ma non avevo ancora trovato nessuno che mi facesse sentire abbastanza bene da parlarne. Presi un altro respiro profondo, l'ennesimo, come se mi mancasse ancora l'ossigeno e lì ce ne fosse poco per me. Infondo quel posto mi sembrava davvero calustrofobico...come faceva a stare lì dentro senza soffrire nessuna controindicazione, quell'uomo?
    Alla sua indicazione non provai nemmeno a contraddirlo. Lo assecondai semplicemente stendendomi cpn cautela sul lettino e lasciandolo fare quando applicò il gel sulla pelle. Riuscii miracolosamente a staccare la mente dal contatto in sè concentrandomi piuttosto su quanto delicate fossero le sue mani su di me. Nessuno era mai riuscito a toccarmo per così tanto tempo senza che urlassi come una pazza. La sua voce mi fece cadere quasi dalle nuvole. Per qualche istante il suo tocco mi aveva fatto dimenticare di esistere. Non sapevo nemmeno di essere realmente in quella stanza, con un uomo accanto che parlava come un signore elegante dell'ottocento. Sì, la sua voce ricordava tanto qualcosa di delicato come la seta e non faaceva paura.
    Equitazione.
    risposi sorridendo appena, con una forza e una sicurezza che ostentavo appena ma che in realtà si stavano radicando, minuto dopo minuto. La sua presenza sembrava farmi bene. Forse era merito della sicurezza che mostrava o forse della sua aurea di gentilezza...in ogni caso era come se lì dentro il mondo fosse destinato a rimanere fuori. All'inizio ero stata male solo perchè il mondo voleva entrare ma ora, chiusi in quella stanza, il silenzio che ci avvolgeva in maniera protettiva non soffocante come spesso accadeva. Avrei quasi voluto rimanere sotto quelle mani in eterno. Cominciai a pensare, senza un motivo, a come dovesse essere essere operati da uno così. Insomma il dolore doveva per forza evitare quelle mani e quel corpo che sfioravano...come poteva lui portare dolore? Sospirai appena, incapace di formulare un dicorso intelligente al momento. Stvo troppo bene per rovinare l'atmosfera con la mia voce


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    - La memoria è una maledizione, si, ma anche il dono più sublime -


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    « Daniel 'DANNY' Zachary Millard

    vampire ○ 25 eightynine years ○ surgeon


    Ogni volta che osservavo quel tipo di organi mi ricordavo del momento in cui scelsi di prendere medicina e chirurgia, piuttosto che ingegneria o economia. Sin da piccolino, ero sempre stato calmo, pacato e tranquillo, piangevo raramente solo quando mi si dava fastidio, e quindi avevo bisogno di un mestiere che non mi annoiasse, ma che mi tenesse sempre attivo e vivace dal punto di vista intellettuale. La medicina mi parve da subito la scienza più cerebralmente stimolante poichè univa la teoria con la pratica, senza trascurare nessuna delle due. E da allora, mentre i miei coetanei desideravano un aumento di stipendio io speravo di operare un tumore al fegato. Avevo dedicato tutta la mia vita - infanzia a parte - alla chirurgia, a volte salvavo vite, altre invece le perdevo, ma comunque facevo ogni giorno del mio meglio. E anziché ricevere che ne so un po' di felicità o di serenità, ero stato ricambiato con la morte e successivamente la trasformazione in un animale spinto ad uccidere. Bella contraddizione la mia vita: un vampiro che salva vite umane, era assurdo solo a pensarsi. L' apparato digerente di quella ragazza stava bene, non riportava alcuna problematica, e per quello che vedevo non doveva preoccuparsi di niente. Fossi stato in lei, invece, mi sarei preoccupato più dell' esterno. Non sapevo come si era fatta quelle brutte lesioni, ma il solo pensiero che potesse essere stato qualcuno mi innervosiva parecchio. Scacciai i pensieri inutili dalla mia testa rimettendo a posto la sonda che tenevo in mano. Mi alzai dallo sgabello e allungai il braccio per prendere della carta con la quale si sarebbe pulita e gliela consegnai nelle mani. Era più forte di me, non riuscivo a smettere di guardare negli occhi quella ragazza, forse volevo dirle con gli occhi di fare qualcosa per rimediare a questa situazione, o forse invece mi piacevano solo i suoi occhi. "Puoi rivestirti. E' tutto a posto dentro la tua pancia." le dissi rassicurandola. Non era dell' interno che doveva preoccuparsi, ma piuttosto dell' esterno. Ma questi continuavano a non essere affari miei, così cercai di scacciare nuovamente questi pensieri e, togliendomi i guanti in lattice e cestinandoli, mi sedetti sulla sedia girevole e firmai il suo certficato dove si affermava che la ragazza non presentava problemi all' apparato digerente. Presi il foglio in mano e mi alzai per consegnarglielo. "Ecco a te. In bocca al lupo per le gare, allora." le dissi prima che se ne andasse sorridendole e tendendole una mano in attesa che me la stringesse. Lei non lo sapeva, ma - seppur in modo alquanto strano - mi aveva fatto piacere visitarla.


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    -Tra scheletri nell'armadio e sogni nel cassetto non so più dove mettere i vestiti -


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    « Angelique Danielle Stanford

    Human ○ 20 ○ Student


    Le sue mani continuavano ad essere tremendamente abili. Per quanto la palstica potesse far male contro le ossa riusciva a render el'atmosfera così rilassata da rendere quel dolore sopportabile almeno in parte. Non che stessi davvero cos' bene con me stessa, per quello ci voleva parecchio tempo ma era un inizio. Forse sarei dovuta passare lì più spesso ma con quale scusa? Non ci eravamo nemmeno davvero presentati e non così locuace da saper metter su una conversazione decente in qualche secondo. Non potevo certo portargli una torta per ringraziarlo di avermi salvato da un tumore che non avevo e un atto simile per una visita sembrava troppo.
    Il tutto finì prima ancora che potessi avere voglia di porre fine a quel briciolo di pace, tanto in fretta da lasciarmi quasi a bocca asciutta. Presi la carta e mi asciugai lentamente prima di alzarmi con agilità e rivestirmi anche se a malincuore. Infilai la camicetta e presi il foglio con due dita concendendomi di incontrare ancora qualche istante i suoi occhi. Osservai la sua anima per qualche istante, da lontano, senza avere il coraggio di esaminarla. Sì se aveva una donna era fortunata, tra le sue braccia ci si doveva sentire davvero bene. Che diavolo stai pensando! Insomma...ti sembra una cosa normale? Non lo è. Non lo conosci nemmeno. Ora prendi quel foglio e vattene- Sì quella era la mia vocina, quella che era stata l'unic compagnia per anni interi. Sospirai decidendo di ascoltarla, come sempre d'altronde, e mi allungai a prendere i fogli.
    Grazie mille e...ehm...crepi!
    risposi nel modo meno timido che riuscii a trovare prima di voltare le spalle all'ambilatorio e a quel medico capace di fare miracoli, per poi uscire totalmente da quel nido di città. Era molto diverso dal paradiso, ovvio, ma era un surrogato decente. Pensare che ora avrei dovuto tornare tra le mura di casa mia mi faceva venire quasi nausea. Sospirai scendendo le scale non con la voglia di andarmene ma piuttosto volendo tornare indietro e restare ancora un po', anche solo per vederlo lavorare. Dovevo seriamente smetterla, a questo punto. Stavo esagerando, decisamente.
    Con l'ennesimo respiro profondo uscii anche dall'ospedale che poco prima temevo tanto, con lo spirito vagamente dispiaciuto di chi dava per scontato che qualunque cosa fosse successa lì dentro non si sarebbe ripetuta. Presi le chiavi dalla borsa, giocherellando con il peluche portachiavi, e dopo essere salita al posto del guidatore uscii dal parcheggio con una manovra veloce e ben calcolata. A velocità sostenuta guidai verso casa, stranamente la radio accesa al posto del solito silenzio che mi accompagnava ovunque. Sembrava assurdo ma avevo voglia di musica, di voci per quanto poco fossero rassicuranti rispetto a quelle del medico. Cominciavo a chiedermi il suo nome e quanto anni potesse avere quando la vista di casa mi ainterruppe, perfortuna, i miei pensieri. La struttura era sempre la stessa: i fiori rossi che avevo messo all'entrata davano all'edificio un aspetto campagnolo e caldo per quanto l'arredamento fosse classico e incentrato sul bianco. Amavo da sempre ghirigori e lampadari importanti, tanto da arredare casa mia con mobili classici ridipinti e rinnovati, intervellati com maestria da oggetti moderni. Anche quello era un vizio per non pensare. Spensi il motore e, al contrario delle altre volte, non mi gaurdai alle spalle. Purtroppo anche questa volta il Karma aveva voglia di essere crudele. Non sopportava evidentemente la mia felicità seppure leggera così aveva deciso di cambaire le cose che sembravano andare anche troppo bene per me. Inserii le chiavi nella toppa che scattarono veloci con un sonoro "click" mentre la porta si apriva sul legno bianco e curato. L aposta era stata lasciata come sempre sotto la porta così mi chinai per raccoglierla ma appena alzai lo sgaurdo mi ritrovai un uomo possente, almeno due volte buone più grosso di me. Aveva un odore famiglaire, fin troppo, e indossava una cannottiere bianca unta. Alzai lo sguardo ma l'uomo che trovai davanti a me era molto più trascurato e dall'airan stralunata di quello che ricordavo. L'ultima notte che avevo incontrato quegli occhietti era notte fonda e lo aveva visto da lontano, applaudire la folla, ma da quel momento dovevano essere cambiate parecchie cose. Eppure il sangue mi si gelò ancor nelle vene, l'ossigeno venne a mancare e mi congelai così, ancora piegata davanti all'uscio, immobile. Avevo paura, paura davvero e tutto qeul che quel medico mi aveva portato era svanito nel niente. Non cpollegai i momenti tra loro, di quel che successe capii poco o niente. Ricordavo bene solo qualche immagine: la camicetta che si accasciava a terra, i suoi jeans di una taglia esagerata che si slacciavano, le mie urla di dolore, il male praticamente ovunque, l'odore di sangue opprimente e il buio che avvolgeva ogni frangente. Il resto era niente.


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